(Paul Devins e Alessandro Musco – Tratto da Argimusco Decoded – 3 edizione 2014)
Il tema del tesoro templare fu allora oggetto di numerose conversazioni tra Musco e il sottoscritto. Alla fine convenimmo sul fatto che certe notizie avrebbero potuto sottrarre attendibilità al nostro lavoro per farlo sconfinare nel leggendario o esoterico (terreno che lasciammo e lasciamo volentieri alle cure degli assertori dei ciclopi preistorici artefici del complesso di Argimusco).
E’ interessante notare come, anche nelle prime leggende arturiane, il Graal sia descritto proprio come una “pietra caduta dal cielo” (lapis exillis da lapis lapsus ex caelus, pietra caduta dal cielo o lapis elixir, elixir di lunga vita estratto dalla pietra)5. Da questa storia riviene la valenza alchemica della simbologia del Graal. Tra tutte le varie interpretazioni, alcune strampalate altre inverosimili, dedichiamo la nostra attenzione ora a quella alchemica. Il fine dell’alchimia, lo abbiamo detto, era quello di creare una pietra in grado di tramutare tutti i vili metalli in oro. Grazie all’insegnamento di Reghini ed Evola6, in particolare, si ritiene oggi che l’alchimia consistesse principalmente in un insegnamento spirituale, considerato eretico a causa della repressione dell’Inquisizione. Per questo fu necessario scrivere in codice alcuni concetti: si parlava di “oro” ma si voleva rappresentare l’illuminazione o l’unità con Dio. Il vile metallo rappresentava l’uomo prima del processo alchemico, e l’alchimia era un cammino spirituale verso Dio. La Pietra Filosofale si può associare, dunque, al Graal: entrambe hanno il potere di portare a Dio.
“Sin dai primi anni i Templari hanno mantenuto un certo rapporto cordiale con i catari, soprattutto nel Linguadoca”, hanno osservato Baigent, Leigh e Lincoln14 . “Molti ricchi proprietari terrieri – catari loro stessi o in simpatia con i Catari, avevano donato vaste estensioni di terra all’Ordine …. E’ incontestabilmente provato che Bertrand de Blanchefort, quarto Gran Maestro dell’Ordine, provenisse da una famiglia catara, Nella Linguadoca i funzionari del Tempio erano più frequentemente catari che cattolici” 15 .
Sì, ovvero, la statua del Pellicano all’ingresso dell’Argimusco, e di cui parlò anche il Santinelli nel 1658. Il Pellicano, lo abbiamo visto, era un simbolo cristico prima appartenuto ai Catari29e, solo dopo, acquisito a tutta la cristianità30.E’ da dire ancora che la statua della Madonna nera della vicina Tindari richiamava un altro forte simbolismo Cataro31 .
LA FUGA DEI TEMPLARI VERSO LA SICILIA – SEGNI TEMPLARI A MONTALBANO?
La comune vulgata dice che sarebbero fuggiti da La Rochelle, cosa che molti, tra essi la Ralls, reputano il luogo meno idoneo per la fuga34 . Probabilmente, quella fu solo una manovra diversiva.
Un inconfondibile simbolo templare “par excellence” è quello della rosa ad otto petali37, (la rosa a cinque petali era, invece, simbolo cataro) presente sia nelle chiese Catare di Santa Caterina (una rosa) che di Santo Spirito (due rose). Ricordiamo che la rosa era simbolo anche dei Fedeli d’Amore38: anche Dante39era un Fedele d’Amore40, e, forse per questo, come riferisce Boccaccio, avrebbe voluto dedicare il Paradiso al grande re ghibellino Federico III41.
Note
- G. Agrati, M.L. Magini, Introduzione a: Chrétien de Troyes, I romanzi cortesi, Milano 1983, p. V. e ancora AA.VV., Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano 2001, vol. 1, p. 15.
- D. H. Green, The Art of Recognition in Wolfram’s Parzival. Cambridge & New York: Cambridge University Press, 1982. e ancora Edwards, Cyril, “Wolfram von Eschenbach, Islam, and the Crusades,” in James Hodkinson and Jeffrey Morrison (еds), Encounters with Islam in German Literature and Culture (Woodbridge, Camden House, 2009), 36-54 e Bumke, Joachim (2004) Wolfram von Eschenbach J.B. Metzler.
- “…A Munsalvaetsche, presso il Graal, si trova una schiera di cavalieri armati. Questi Templari spesso cavalcano lontano in cerca di avventure. Sia che acquistino gloria o danno, compiono le loro gesta come espiazione dei loro peccati. Questa Compagnia è bene armata. Ma voglio dirvi come si nutrono: vivono di una pietra di tipo purissimo. Se non ne avete mai sentito parlare vi dico il nome: lapsit exillis si chiama. […]. La pietra è anche chiamata Graal…” (Parzival, Wolfram von Eschenbach, IX, 469).
- Nota tratta da Renè Guenon “Il Re del Mondo” Adelphi: “Alcuni dicono uno smeraldo caduto dalla corona di Lucifero, ma si tratta di una confusione proveniente dal fatto che Lucifero, prima della sua caduta, era l’«Angelo della Corona» (vale a dire Kether, la prima Sephirah), in ebraico Hakathriel, nome d’altronde che ha per numero 666”
- Cfr.,The Elixir and the Stone: The Tradition of Magic and Alchemy di M.Baigent e R.Leigh 1997, pag. 34 e ss
- Segnaliamo ancora La tradizione ermetica” di Julius Evola, Mediterranee, 1996. Infine, gli scritti del Gruppo di UR citati nel testo, in particolare gli interventi di Abraxas, Ea, Luce, Negri, etc.. In KRUR 1929, Tilopa, a pag. 154 e ss. Evola anticipò i temi del suo testo sopraccitato. Sul tema del Graal vedi Evola in Il Mistero del Graal, Bari, 1937.
- “…La chimica moderna ne è invece una deformazione, nel senso più rigoroso della parola, alla quale dette luogo, forse a partire dal Medioevo, l’incomprensione di certe persone che, incapaci di penetrare il senso vero dei simboli, presero tutto alla lettera, e credendo che in tutto ciò non si trattasse che di operazioni puramente materiali si dettero ad un più o meno disordinato sperimentare”. Anche queste persone, prese ormai dall’ossessione della fabbrica dell’oro, fecero qua e là, per caso, delle scoperte e proprio esse sono gli autentici precursori della chimica moderna. Per cui rivela il Guenon non è una evoluzione o un progresso che dall’ermetismo e dell’alchimia iniziatica si giunge alla chimica, ma proprio all’opposto con una degenerescenza…”, vedi “La Tradizione Ermetica” di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, 1996, pag 187/88.
- Nostra traduzione di Otto Rahn “Crusade between the Cathars, the Templars, and the Church of Rome”(First English Translation by Christopher Jones), 1934/2006, pag. 46
- Otto Rahn, ibidem pag. 107
- Otto Rahn, ibidem, pag. 175
- Otto Rahn, ibidem, 175
- The knights Templar in Spain, Juan Garcia Atienza, Destiny Books
- Nostra traduzione di passaggi di “The Templar Revelation: Secret Guardians of the True Identity of Christ” Lynn Picknett and Clive Prince 1997
- Nostra traduzione di passaggi di “The Holy Blood and the Holy Grail” Michael Baigent, Richard Leigh and Henry Licoln, 1982, Jonathan Cape
- Blanchefort, che ha guidato i Templari tra il 1153 e il 1170, è stato il più significativo tra tutti i grandi maestri templari. E’ stato il Cavaliere Templare Bertrand che ha trasformato i templari nell’istituzione superbamente efficiente, ben organizzata e disciplinata in modo gerarchico che è poi diventata.
- Jacques Dubourg, “Les Templiers dans le Sud- Ouest” ; Pollina-a-Lucon 2001(pag. 149)
- Christ Lynn Picknett and Clive Prince, ibidem, pag. 201
- Juan Atienza, “Los Templarios”, Madrid 1992 ( pag. 35). Gauthier Langlois scrisse: « Essa (la commenda templare di Mas Déu) intratteneva da molto tempo relazioni con alcuni signori eretici del Rossiglione e del Fenolhèdes: accolse Pons de Vernet e Pierre de Saissac-Fenolhet che saranno più tardi oggetto di un processo post mortem.”(vedi Gauthier Langlois “Les Templiers en pays catalan”, Canet 1998, pag. 66/67). Del resto anche lo stesso Robert Vinas si dimostra in questo senso molto categorico: “Gli studi di Jorge Ventura Subirats sui Catari in Catalogna non lasciano più alcun dubbio sulla penetrazione dell’eresia nel Rossiglione e nel Fenouillèdes all’inizio del XIII secolo in un certo numero di famiglie nobili che costituivano il vivaio da cui venivano recrutati i Templari e allo stesso tempo lo strato sociale che li fornisce di donazioni. Alcuni membri di queste famiglie sono entrati nella confraternita di Mas Déu, lì hanno terminato i loro giorni, si sono fatti seppellire in terra cristiana dopo aver provveduto a generose donazioni pensando di essere così protetti contro processi, interdetti, confische e anche scomuniche. Questo non ha impedito processi post mortem come nel caso di Pons de Vernet, Arnaud de Mudagous e Pierre de Fenouillet a partire dal 1260, da quando re Giacomo non poté più temporeggiare dinanzi all’Inquisizione.” (vedi Robert Vinas, Les Templiers en pays catalan », Canet 1998 (pag. 32-33)
- Picknett e Prince, ibidem
- Papa Celestino V, ad Anagni, il 12 giugno del 1295 stipulò con Giacomo II e con Carlo II d’Angiò il Trattato di Anagni. Con questo accordo, Giacomo, oltre a restituire i tre figli di Carlo II che aveva in ostaggio da circa sette anni acconsentì a consegnare la Sicilia al papa, che a sua volta l’avrebbe riconsegnata agli angioini, in cambio dei regni di Sardegna e di Corsica, se li avesse saputi conquistare, e avrebbe sposato Bianca di Napoli, la figlia di Carlo II d’Angiò, ed inoltre Federico, il governatore della Sicilia sarebbe stato compensato dal matrimonio con l’erede dell’impero d’oriente, Caterina Cortenay, figlia dell’imperatore titolare Filuppo I e di Beatrice d’Angiò. Infine il trattato prevedeva la riconsegna del regno di Maiorca, vassallo della Corona d’Aragona, allo zio di Giacomo, Giacomo II di Maiorca. Il fratello, Federico, amareggiato, anche perché Giacomo non aveva ottemperato al testamento di Alfonso III, rifiutò e si schierò con i Siciliani che, sentendosi traditi dal nuovo re Aragonese, dichiarato decaduto Giacomo, lo elessero al trono di Sicilia. L’undici dicembre 1295 il Parlamento Siciliano, a Palermo, proclamò Federico III Re di Sicilia, e riconfermò la scelta il 15 gennaio 1296 al Castello Ursino di Catania. L’incoronazione ufficiale avvenne il 25 marzo 1296 nella Cattedrale di Palermo.
- Il Catarismo italiano e i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV” di Savino Savini, Le Monnier 1958 pp. 175
- Nelle bolle Sancta Romana atque universalis Ecclesia, del 30 dic. 1317, e Gloriosam Ecclesiam, del 23 genn. 1318 papa Giovanni XXII prendeva di mira i gruppi di “fraticelli, bizzocchi o beghini di ogni obbedienza”, nonché gli appartenenti a congregazioni non riconosciute dalla Sede apostolica.
- “Passim inibi, sicut per Inquisitores hereticae pravitatis accepimus, receptantur Haeretici, proteguntur, proctetique in eiusdem Fidei derogationem horrendam quotidie moltiplicantur” (”Bolla Solebat hactenus mater” Papa Martino IV) e ancora Jacopo Manna “L’iconografia nel medioevo Italiano. Un problema di iconografia”. Alcune testimonianze rese davanti agli inquisitori francesi fanno pensare ad una vera e propria emigrazione di boni homines fuggiaschi dalla Provenza alla Sicilia tramite il porto di Genova. L’ultima fuga è del 1307“ (vedi Il Catarismo italiano e i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV” di Savino Savini, Le Monnier 1958, pag. 172-174 e ancora vedi A History Of The Inquisition Of The Middle Ages di Henry C. Lea, Kessinger 2004 pag. 120 “…we hear constantly of refugees from Toulouse and Carcassone flying to Lombardy and even to Sicily…” e pag. 240 “…the pilgrims thither had no trouble in finding their fellow-believers (…) in the kingdom of Sicily…”). Nel 1309 Guillem Falquet confessò a Tolosa di essere stato quattro volte a Como ed anche in Sicilia per organizzare la chiesa catara (vedi A History Of The Inquisition Of The Middle Ages di Henry C. Lea, Kessinger 2004 pag.50). Il credente Cataro Jean Mauri durante la Inquisizione de Pamiers ricordava come il cataro catalano Raimond de Granadella che viveva nel territorio catalano gli aveva commentato in qualche occasione che “había muchos como él en Sicilia”. “Muchos beguinos, cuando fueron perseguidos por la Inquisición emigraron hacia Sicilia, igual como también hicieron muchos cátaros” (Sergi Grau Torras, Durand de Huesca y la lucha contra el catarismo en la corona de aragón Anuario de estudios medievales (aem) 39/1, enero-junio de 2009 pp. 3-25 issn 0066-5061, pag. 22 e J. Duvernoy, Le registre de L’Inquisition de Jaques Fournier, T. III., p. 874). Picknett e Prince notano che dopo la Crociata Albigese i Catari sopravvisuti scapparono in paesi vicini e l’Italia era la favorita: pur essendo per paradosso la nazione che ospitava il Papa, essa era la meno rigida nella persecuzione degli eretici. Ovviamente aggiungiamo noi scapparono nella terra, la Sicilia, ove unico caso, un re aveva fatto giuramento di ospitalità verso di loro. Il credente Cataro Jean Mauri durante la Inquisizione de Pamiers ricordava come il cataro catalano Raimond de Granadella che viveva nel territorio catalano gli aveva commentato in qualche occasione che “había muchos como él en Sicilia”. “Muchos beguinos, cuando fueron perseguidos por la Inquisición emigraron hacia Sicilia, igual como también hicieron muchos cátaros”.
- Informaciò espiritual al Rei Frederic de Sicilia di Arnau de Vilanova Obres Catalanes i. 223–43
- Vedi Schmidt, Storia e dottrina della setta dei Catari o Albigesi. Parigi-Ginevra, 2 vo1.Vol. Moneta, pp. 112, and 461.
- I catari confutavano i sacramenti del battesimo e della comunione (eucaristia) poiché, essendo l’acqua del battesimo e il pane dell’ostia fatti di materia impura, non potevano avere in sé lo Spirito Santo.
- Nell’Interrogatio Iohannis, vangelo apocrifo utilizzato dai Catari, si tratta di una conversazione tra San Giovanni e Gesù Cristo durante l’ultima cena: “Da quando il Diavolo decadde dalla gloria del padre e volle la propria gloria, egli sedette sulle nubi e, mandò i suoi servitori, gli angeli, fuochi fiammeggianti, sulla terra in mezzo agli uomini da Adamo fino ad Enoc. E mandò il suo servitore e innalzò Enoc sopra il firmamento; gli rivelò la propria divinità e comandò che gli fossero dati penna ed inchiostro: egli sedette e scrisse sessantasette libri. Poi gli comandò di riportarli sulla terra e li trasmise ai propri figli cominciando ad insegnare loro il modo di celebrare i sacrifici ed i misteri iniqui. Quando Satana seppe che ero disceso giù dal cielo nel mondo, mandò un angelo: questi prese dei pezzi di legno da tre alberi e li diede a Mosè perché fossi crocifisso: essi sono stati conservati fino ad oggi per me. (…)”. La croce fu, pertanto, per i Catari uno strumento diabolico concepito da Satana.
- Il terzo merlo ghibellino, quello di destra, è stato demolito per fare posto al campanile con la data dei restauri (1344). Oggi i merli ghibellini sono stati vandalicamente asportati dal castello aragonese del più grande re ghibellino della storia, Federico III d’Aragona re di Sicilia, in nome di “restauri” finanziati dalla Unione Europea. Incredibile…!
- Jean Duvernoy, La Religios des Cathares, 1976, V. 13, Descente en ce monde et kénôse : parabole du pélican, p. 82
- “Questi è colui che giace sopra il petto del nostro pelicano, e questi fue di su la croce al grande officio eletto” (Dante Paradiso XXV, 114). Tra breve discuteremo del rapporto tra Dante e Catari e Templari. Il Pellicano cataro fa richiamo ai Salmi ove è scritto “Similis factus sum pelicano solitudinis” (101,7). La metafora del pelicano era già adoperata dai Pauliciani predecessori dei Catari nei secoli X e XI, vedi P.Sedir Il segreto dei Rosacroce, G.Casini, 2010, pag. 15.
- Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 105
- All’inizio anche Giacomo II difese i Templari scrivendo addirittura al Papa e ai sovrani di Castiglia e Portogallo. Successivamente agli arresti ordinati nel 1307 dal sovrano di Francia Filippo il Bello finse una finta compiancenza. I processi vennero svolti senza fare ricorso ad alcuna tortura. Nessuno dei templari incarcerati confessò alcunchè con grande disappunto del Papa e di Filippo il Bello. Decretati innocenti, il Concilio ecclesiastico di Tarragona ne ordinò la scarcerazione nel 1312 (vedi Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 107)
- Alessandro Musco, a cura di, in Backman C.“Declino e caduta della Sicilia medievale”, 2007, pagg. 207-210
- Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 42
- Karen Ralls, ibidem, pag. 41 e 42
- Sui templari Arnau dice nel Expositio super Apocalypsi, «ECCLESIA LAODICIE respicit primo et principaliter septimum et ultimum tempus Ecclesiae militantis, quod post mortem Antichristi curret usque ad finem mundi. Secundario respicit statum regularem Christo militantem, ram corporaliter quam spiritualiter, ut est status Hospitalariorum et Templariorum et Uclesii et Calatravae et similium…». In una lettera a Giacomo II Arnau considera i cavalieri templari come uno dei segni positivi del settimo tempo della Chiesa che seguirà la morte dell’Anticristo (Ad Jacobum Il de Templariis).
- Citiamo un passo di un pregevole articolo dell’amico Ignazio Burgio: “…Quando nel 1782 nella Cattedrale di Palermo venne aperto il sarcofago di porfido rosa contenente il corpo di Federico II di Svevia a scopo di studio e ispezione, si scoprì che lo “Stupor Mundi” era stato sepolto non con un saio da cistercense, come riportato dalle cronache del suo tempo, bensì con tre tuniche sulle quali erano ricamati arabeschi e simboli esoterici. Uno di questi era costituito dal fiore ad otto petali, una figura alla quale l’imperatore svevo sembra fosse particolarmente legato, tanto che la sua salma recava ancora al dito un anello la cui forma era anch’essa quello di un fiore ad otto petali. La simbologia del numero otto, d’altra parte, come è abbastanza noto, ritorna anche nel suo monumento più famoso, Castel del Monte, in Puglia, nel quale l’orientamento degli otto lati e delle otto torri incontra non solo precise corrispondenze astronomiche nel corso delle diverse fasi solari, ma anche perfetti allineamenti geografici con i più importanti centri europei e mediterranei dell’epoca (in primo luogo con Costantinopoli e Gerusalemme, di cui Federico era formalmente anche sovrano). L’imponente castello ottagonale del sovrano svevo in un certo senso sembra avere (oltre che quello di una corona imperiale) anche il disegno di una rosa ad otto petali come il simbolo a lui così caro…” (Gli otto angoli del cielo. origine, significato e storia degli enigmatici simboli artistici e architettonici ad otto elementi di Ignazio Burgio su Internet). Il numero otto indica anche l’ottavo giorno della creazione, ossia la nuova creazione che inizia con la resurrezione di Cristo, per cui l’otto indica la rinascita attraverso il battesimo, della resurrezione, della vita eterna.
- Vedi Pietro Negri Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore, UR 1928, pag. 70 e ss e i riferimenti al prezioso lavoro di Luigi Valli. Il Valli ricorda “la formula dei Rosacruciani riassumente il processo d’innalzamento attraverso il dolore e attraverso la fede fino alla verità santa, contemplazione di Dio, suona com’è noto: Per Crucem ad Rosam”, e ancora, “Ebbene se si voglia riassumere in una formula brevissima il pensiero di Dante nella Divina Commedia, nel quale non la Croce sola, ma anche l’Aquila sono i mezzi attraverso i quali la Grazia conduce l’uomo alla visione beatificante di Dio che avviene in una Rosa candida nell’Empireo, potremmo usare la formula: «Per crucem et aquilam ad rosam». La grande idea della Croce veniva a Dante dalla tradizione cristiana e cattolica, la grande idea dell’Aquila dalla tradizione di Roma e dal suo fervore di ricostituzione civile nell’ideale universalistico dell’Impero; la grande idea della Rosa dalla tradizione mistica dei “Fedeli d’Amore”. (cfr., Luigi Valli “Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» Luni 1994, pag. 304). Nel saggio di Reghini si veda inoltre l’importanza data dai Fedeli d’Amore o Cavalieri del Delta templare al numero 9 (9 come multiplo del 3, delta).
- Sul rapporto tra Dante e i Templari si veda Valli “…L’ipotesi che la setta dei «Fedeli d’Amore» sia stata una specie di filiazione segreta dell’ordine dei Templari o che abbia in qualche modo aderito a esso, che ne abbia in parte seguìto i riti, che sia stata sotto la sua alta dipendenza e abbia sofferto indirettamente della tragedia dei Templari che si svolge proprio nella maturità della vita di Dante e forse sotto i suoi occhi a Parigi, è per me un’ipotesi serissima nella luce della quale si spiega un grandissimo numero di fatti….” (cfr., Luigi Valli “Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» Luni 1994, pag. 322) e ancora, si vedano le parole dello stesso Dante: nella condanna pronunciata dal suo avo Ugo Capeto (Purgatorio XX, 91-3) si parla di Filippo come il nuovo Pilato che è tanto crudele… e qui Ugo Capeto maledice i suoi discendenti, tra cui Filippo il Bello, sia per l’oltraggio di Anagni sia per la distruzione del Tempio. In Purgatorio VII. 110, la vita di quel monarca, tristemente bigotto e dalle ambizioni sfrenate, è descritta come viziata e lorda. Non solo, ma Dante lo detestava apertamente. Per lui, Filippo era il mal di Francia (Purg. VII, 109). Dante era probabilmente un iniziato della Chiesa Albigese, un Cataro, ossia un puro, un Fedele d’Amore, anche se la Chiesa di Roma non lo ha mai ammesso. E qui ha ragione Luigi Valli quando nel suo libro Il linguaggio segreto afferma che “La questione dei Fedeli d’Amore non s’inquadra nel suo spirito fra le cortesie feudali e i canti di Calendimaggio. Si deve inquadrare fra la strage degli Albigesi e quella dei Templari.” Non per niente chi gli appare e chi lo guida nella sua Commedia è Bernardo di Chiaravalle, colui che stabilì la regola dell’Ordine del Tempio, e lo esorta a non guardare in basso. E San Bernardo (1090-1153), che la storia riconosce come l’uomo più colto del mondo di allora, è proprio quello che fa della donna la “Rosa mistica” per la quale si batte il Cavaliere Templare, segno che si ritrova anche nell’antica abbazia cistercense di Casamari. In un passo della Commedia si accenna alla vicenda templare, lì dove dice che “il nuovo Pilato sì crudele, che ciò nol sazia, ma senza decreto porta nel tempio le cupide vele. O signor mio, quando sarò io lieto, a veder la vendetta che nascosa, fa dolce l’ira tuo nel tuo segreto?” (Purgatorio, canto XX, 86-96). Il rapporto di Dante coi Templari poi è indirettamente confermato anche dal giudizio che Dante dà di Clemente V, definito nell’Inferno un “pastor senza legge”, e, nel Purgatorio, “puttana sciolta” (in tutto Clemente V viene nominato 6 volte, e sempre presentato in modo pessimo). Nel canto 30 del Paradiso Beatrice è descritta nell’Empireo, contornata e protetta dal “convento delle bianche stole”, che, secondo una versione, potrebbero essere le bianche stole dei cavalieri templari. Nel canto 27 del Purgatorio, v. 15 e ss., invece, Dante si dice spaventato dal fuoco, perché gli ricorda “umani corpi già veduti accesi”. Ora, è difficile pensare che Dante sia spaventato per un semplice fuoco, dato che era già passato per l’inferno e per prove peggiori; lo spavento potrebbe invece essere dovuto al fatto che Dante ricorda probabilmente il rogo in cui morì Jacques de Molay, secondo alcuni commentatori, cui pare che Dante avesse assistito personalmente (si veda sul tema l’interessante studio “Dante templare, massone, rosacrociano, eretico, anticattolico ed incompreso” di Paolo Franceschetti su internet)
- Beatrice dice a Dante nella Commedia “Perchè la faccia mia sì t’innamora che tu non rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo d’infiora? Quivi è la rosa, in che il verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino” (Paradiso, XXIII, vv.70-75). Nel Convivio Dante poi dice: “E conviensi aprire l’uomo quasi come una rosa che più chiusa stare non puote, e l’odore che dentro generato è spandere”. La rosa è per Dante l’Ecclesia spiritualis costituita dai “perfetti”, così come per i Catari. Sulle connessioni tra Dante, i Catari e il simbolo della rosa vedi il testo di Adriano Lanza “Dante e la Gnosi: esoterismo del Convivio”, Mediterranee 1990. Vedi ancora Pietro Negri “Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore”, UR 1928, pag. 70 e ss. Ancora, Dante e Beatrice si ritrovano nel cielo delle stelle fisse (Divina Commedia Paradiso XXII-XXXII) ovvero nell’ottava sfera. L’ottava sfera era per Thebit e per il suo epigono, Arnau de Vilanova, come per Dante, il cielo delle stelle fisse, quello delle costellazioni. Abbiamo visto che un testo, importantissimo nell’ambito culturale dell’astronomia europea e catalana, cui fortemente Arnau si ispirò sull’Argimusco era quello di Al-Sufi, il Liber locis stellarum fixarum o “Libro de las figuras de las estrellas fijas de la octava esfera”.
- Nella lettera di Frate Ilaro inserita dal Boccaccio nel suo Zibaldone (Zibaldone Laurenziano del Boccaccio, manoscritto 29.8 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, a c. 67r) questi scrive “[XIV] Si vero de aliis duabus partibus huius operis aliquando Magnificentia vestra perquireret, velud qui ex collectione partium adintegrare proponit, ab egregio viro domino Mor[o]ello marchione secundam partem, que ad istam sequitur, requiratis; et apud illustrissimum Fredericum regem Cicilie poterit ultima inveniri. Nam, sicut ille qui auctor est michi asseruit se in suo proposito destinasse, postquam totam consideravit Ytaliam, vos tres omnibus preelegit ad oblat[i]onem istius operis tripartiti” ovvero “[XIV] Se poi la vostra Magnificenza volesse mai avere notizie delle restanti altre due parti di quest’opera, con l’intento di completarla radunandola intera, farà richiesta della seconda parte che segue questa prima all’egregio Signore il Marchese Moroello; mentre l’ultima parte si potrà trovare presso Federico re di Sicilia. Infatti, secondo le affermazioni a me fatte dall’autore circa la sua decisione di destinare l’opera, dopo aver considerato l’intera Italia, scelse voi tre per offrire questo lavoro tripartito”. Altre notizie sono riportate da Boccaccio anche nel Trattatello (c. XXXVI) e nella seconda redazione dell’elogio (C. XXIII). Boccaccio ci dice ancora che: ”Il nostro Dante fu congiunto di stretto nodo d’amicizia con Federico d’Aragona re di Sicilia” (Boccaccio, De Genealogia deorum lib XIV, cap XII)
- Nove è un numero importante poiché 9 erano i cieli, nove erano i fondatori tradizionali dell’Ordine del Tempio e 9 le provincie del Tempio di Occidente, etc.. – Le parole fondamentali del gergo dei Fedeli d’Amore sono nove, che è il numero destinato a indicare solamente le cose di suprema importanza, come il concetto di Beatrice. Si noti, infine, che la Regola dei Templari, redatta da Bernardo di Chiaravalle, si componeva di 72 articoli. Altra considerazione interessante è la teurgia templare, per la quale all’ora del Vespro i cavalieri templari dovevano recitare nove Pater Noster.
- Allocutio super significatione nominis Thetragrammaton di Arnau de Vilanova. Il Delta presente dietro il megalite della Vergine è un’altra delle prove della presenza di Arnau sull’Argimusco: tra i gradi templari vi erano, infatti, i “Cavalieri del Delta Sacro”. Loro compito “custodire con fedeltà il tesoro della sapienza tradizionale, sempre velandolo a coloro che non sappiano penetrare nel “terzo cielo”. Dall’orfismo e dal pitagorismo sappiamo che il terzo cielo è quello di Venere (P.Negri Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore, UR 1928). Il delta era il simbolo del Tetragrammaton ovvero il nome di Jahve (“יהוה“): Joth, Heth, Van (Vau), Heth. Di esso Arnau tratta estesamente nel suo libro Allocutio super significatione nominis Thetragrammaton. Arnau, nel testo, riduce le lettere del Thetragrammaton da quattro a tre (delta) per ricondurre il nome di Dio alla Trinità cristiana, seguendo anche l’insegnamento ebraico cui era stato introdotto dall’ebreo convertito Ramon Martì.
- Che il Delta possa essere il Delta templare ce lo conferma il metodo qui da noi adottato dell’analisi crono-sistemica: ovvero, lì vicino insistono un sestante medievale di pietra arabo (inventato da Abu-Mahmud al-Khujandi nel 994), una civetta alchemica, un pellicano Cataro medievale, un salnitro alchemico, etc.. Ne riviene che il simbolo del Delta dovrebbe essere ragionevolmente quello Templare medievale.
- Vedasi “regole di pronuncia dell’occitano” dal sito internet: https://sites.google.com/site/linguadelpiemonte/home/la-lingua-piemontese-seconda-parte/regole-pronuncia-occitano. Oggi oltre che in alcuni paesini Siciliani, San Fratello, Novara di Sicilia, Sperlinga, etc.., l’occitano si parla in alcune valli del Piemonte come la Val di Susa o Val Chisone.
- È noto che tanto Montalbano che i paesi vicini come Novara di Sicilia e San Piero Patti erano stati, tra il XII e il XIII secolo, territori di insediamento di coloni lombardi che parlavano una lingua (più che un dialetto) chiamata gallo-italica anch’essa di matrice provenzale/occitanica. Nel 1232 i coloni di Montalbano vennero in massima parte deportati ad Augusta da Federico II. Montalbano venne scelta come sede della Corte Reale aragonese per il gran numero di abitazioni vuote in cui si insediarono le centinaia di baroni e personaggi di corte Aragonesi descritti dal Muntaner oltre che per i già descritti motivi logistico militari legati al passaggio della via Francigena.
- Vedi voce Montalbano su wikipedia
- Intervista ad Alessandro Musco su Centonove n. 10 del 16 marzo 2012, pag. 39
- stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“la rosa, che era, [ora] esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi”) è una variazione di un verso del De contemptu mundi di Bernando Cluniacense, monaco benedettino del XII secolo. Essa deve la sua fortuna a Umberto Eco che ne ha fatto l’ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
- Alessandro Musco, a cura di, in Backman C.“Declino e caduta della Sicilia medievale”, 2007, pagg. 67 e ss.
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